La guerra fra Israele e Iran rischia di allargarsi ben oltre il Medio Oriente. Al centro delle preoccupazioni internazionali c’è anche lo Stretto di Hormuz.
Si tratta di un passaggio marittimo tanto stretto quanto strategico, dal momento che da lì transita circa un terzo del petrolio mondiale. Un eventuale blocco dello Stretto di Hormuz, o anche solo una seria minaccia alla sua sicurezza, potrebbe avere effetti immediati sui mercati energetici e, a cascata, sull’inflazione globale.
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Perché lo Stretto di Hormuz è importante
Lo Stretto di Hormuz è un corridoio marittimo di appena 33 chilometri nel suo punto più stretto, situato tra l’Iran a nord e l’Oman e gli Emirati Arabi Uniti a sud. Attraverso queste acque passano oltre 20 milioni di barili di petrolio al giorno, pari a quasi il 30% del consumo globale di greggio, oltre a una quota rilevante del commercio mondiale di gas naturale liquefatto (Gnl). Ogni mese vi transitano 3.000 navi. Da lì passano le merci che dalla Cina vengono smistate verso parte del Medio Oriente, e non solo.
Le sue corsie di navigazione, larghe solo tre chilometri ciascuna, rappresentano un “collo di bottiglia” energetico che non ha alternative praticabili: non esistono rotte marittime alternative per far uscire il petrolio dal Golfo Persico.
Sebbene Arabia Saudita e Emirati abbiano realizzato oleodotti che aggirano Hormuz, la loro capacità resta limitata (circa 6,5 milioni di barili al giorno) rispetto ai volumi che ogni giorno attraversano lo stretto.
L’effetto guerra sul petrolio
L’escalation militare tra Israele e Iran ha già fatto schizzare i prezzi del petrolio. Dopo i raid israeliani su obiettivi militari e civili in Iran, e in risposta al lancio di centinaia di missili da parte di Teheran, il prezzo del greggio ha registrato il balzo più significativo da oltre tre anni, arrivando a salire fino al +14% in una sola giornata.
Sebbene la situazione sui mercati si sia parzialmente stabilizzata nelle ore successive, il rischio resta alto: una chiusura o anche un rallentamento del traffico marittimo nello Stretto di Hormuz rappresenterebbe uno shock sull’offerta globale di energia. Secondo le stime di J.P. Morgan, un attacco diretto alle infrastrutture energetiche iraniane o un blocco temporaneo dello stretto potrebbe far schizzare il prezzo del barile fino a 120 dollari, con un effetto domino sull’inflazione: l’indice dei prezzi al consumo (Cpi) negli Stati Uniti potrebbe risalire fino al 5%, invertendo il trend di rallentamento degli ultimi mesi.
L’energia più cara alimenterebbe anche l’aumento dei prezzi nei settori legati alla produzione e alla logistica, colpendo famiglie e imprese a livello globale. In Europa, già sotto pressione per i dazi statunitensi e la guerra in Ucraina, il rischio è quello di una nuova combinazione di inflazione alta e crescita stagnante, ovvero la temuta stagflazione.
Usa e Cina in allerta
Nonostante le minacce di Teheran, una chiusura effettiva dello stretto appare ancora poco probabile. Una mossa del genere scatenerebbe una risposta militare diretta degli Stati Uniti, che mantengono una forte presenza navale nell’area. Allo stesso tempo, la Cina, principale acquirente del petrolio iraniano, ha tutto l’interesse a mantenere aperte le rotte energetiche che alimentano la sua industria.
Questo scenario complesso, almeno sulla carta, potrebbe contribuire a evitare un’escalation che coinvolga lo Stretto di Hormuz, dal momento che nessuno ha interesse a bloccarlo.