Dall’attacco a sorpresa del 13 giugno contro i principali siti nucleari e militari dell’Iran, il conflitto tra Israele e Teheran è entrato in una fase nuova, più scoperta e pericolosa. L’operazione israeliana ha causato centinaia di vittime, tra cui vertici militari e scienziati iraniani, scatenando una reazione missilistica senza precedenti da parte della Repubblica islamica.
Il bombardamento della sede della tv di Stato, i danni alla centrale di Natanz e il coinvolgimento delle diplomazie di Stati Uniti, Qatar, Oman e Arabia Saudita disegnano un quadro instabile, in cui la guerra aperta rischia di superare definitivamente le logiche del confronto indiretto.
In gioco c’è non solo il programma atomico iraniano, ma anche la tenuta interna dei due regimi e gli equilibri internazionali in Medio Oriente. Ma vediamo perché è successo ora e quali potrebbero essere le implicazioni principali.
Indice
Gli attacchi a sorpresa che hanno colpito il cuore dell’Iran
Il 13 giugno scorso, Israele ha sferrato un attacco massiccio contro più di cento obiettivi strategici all’interno del territorio iraniano. Secondo quanto riportato da immagini satellitari, alcuni settori del sito di Natanz, noto per l’arricchimento dell’uranio, sarebbero stati pesantemente colpiti.
Tra le vittime figurano alti ufficiali delle forze armate iraniane, tra cui il capo di stato maggiore Mohammad Bagheri e il generale Hossein Salami delle Guardie Rivoluzionarie.
Lunedì 16 giugno, le forze israeliane hanno colpito la sede della televisione pubblica iraniana, considerata da Tel Aviv anche un nodo di comunicazione militare. Le immagini diffuse da media internazionali mostrano una conduttrice abbandonare lo studio pochi istanti dopo un’esplosione.
Secondo Rafael Grossi, direttore dell’Aiea, l’offensiva israeliana avrebbe colpito in modo decisivo il complesso nucleare di Natanz: migliaia di centrifughe potrebbero essere state rese inutilizzabili.
L’infrastruttura, considerata centrale per la strategia di deterrenza iraniana è stata, forse, neutralizzata. Se questa notizia fosse confermata, sarebbe un colpo politico e tecnico che Teheran difficilmente potrà assorbire.
Le operazioni aeree israeliane sono proseguite nei giorni successivi. Le autorità iraniane hanno dichiarato poi di essere disposte a riaprire i canali diplomatici, a patto che Israele interrompa gli attacchi.
Fonti diplomatiche riportate da Reuters riferiscono che Teheran abbia sollecitato Arabia Saudita, Oman e Qatar affinché facciano pressione su Washington per un cessate il fuoco immediato, promettendo in cambio aperture sui negoziati sul nucleare.
Israele giustifica l’offensiva: “Prevenire la bomba atomica”
Benjamin Netanyahu ha dichiarato che l’azione militare è stata necessaria per contrastare un presunto piano iraniano volto alla produzione di ordigni nucleari (frasi che siamo abituati a sentire almeno dal 1992). Secondo il primo ministro israeliano, Teheran avrebbe già la capacità di fabbricare 9 bombe atomiche.
Il Consiglio dei governatori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea) ha accusato l’Iran di non rispettare gli obblighi del Trattato di non proliferazione, riferendo l’accumulo di circa 400 kg di uranio altamente arricchito. Ma, secondo le valutazioni dei servizi occidentali, l’Iran non avrebbe ancora compiuto il passo finale verso la realizzazione di un’arma nucleare.
Negoziati con gli Usa nel mirino di Tel Aviv
Secondo quelle che sono le critiche indipendenti più in voga, l’obiettivo di Israele però sembra essere stato più ampio: colpire infrastrutture statali, uccidere figure chiave e minare i negoziati internazionali in corso. Shamkhani, ucciso nel primo raid, sarebbe stato tra i promotori del dialogo con gli Stati Uniti.
Il fattore scatenante dell’attacco israeliano, quindi, non è da ricercarsi solo in un’emergenza improvvisa, ma in una combinazione di elementi strategici.
I piani degli Stati Uniti contro l’Iran
E poi c’è un attore fondamentale, da sempre alleato con Israele e nemico del mondo islamico da considerare, gli Stati Uniti.
Donald Trump ha inizialmente negato qualsiasi coinvolgimento, ma poche ore dopo ha ammesso che l’operazione era nota, anche perché da giorni i militari americani avevano abbandonato le basi. Durante il G7 in Canada, ha parlato di contatti con Teheran per sondare una tregua, dichiarando che un’intesa è ancora possibile.
Al tempo stesso però, ha bloccato un piano israeliano per colpire la guida suprema iraniana. Su Truth Social, ha minacciato ritorsioni se l’Iran non accetta condizioni precise, concludendo con un lapidario:
Tutti dovrebbero immediatamente evacuare Teheran.

La strategia di Netanyahu e la crisi di consensi
Per alcuni osservatori, Netanyahu potrebbe aver scelto il momento dell’attacco anche per ragioni di tenuta interna e proiezione esterna. Il consenso popolare, frammentato dopo mesi di guerra a Gaza, ha ritrovato una parziale coesione intorno all’azione contro Teheran.
Pesano anche le accuse internazionali per crimini di guerra nei territori occupati, così come il rischio di un mandato d’arresto della Corte penale internazionale. In questo quadro, colpire l’Iran può apparire utile per ridisegnare il profilo internazionale d’Israele e rinviare i dossier sgraditi.
Dal punto di vista diplomatico, l’escalation consente a Gerusalemme di frenare l’ipotesi di una conferenza internazionale che, su impulso di Francia e Arabia Saudita, puntava a riconoscere lo Stato palestinese, eventualità che il governo israeliano vorrebbe frenare a tutti i costi.
Sul piano interno, l’emergenza riduce lo spazio di manovra per i partiti ultraortodossi della coalizione, da giorni in rotta con Netanyahu sulla questione della leva obbligatoria.
La collaborazione tra Israele e Iran
I rapporti tra Israele e Iran non sono sempre stati tesi come oggi. In realtà, ci sono stati momenti di collaborazione, influenzati dai grandi cambiamenti della politica internazionale.
Subito dopo la nascita di Israele, tra il 1947 e il 1953, l’Iran non lo riconobbe ufficialmente, ma propose delle soluzioni alternative per la questione palestinese all’Onu.
Dopo il colpo di Stato del 1953, sostenuto da Stati Uniti e Regno Unito, che riportò lo Scià al potere, l’Iran si avvicinò molto all’Occidente, Israele incluso. In quel periodo i due Paesi divennero partner strategici: scambiavano petrolio e tecnologia, condividevano informazioni militari e avevano ambasciate attive.
Il punto di rottura con la rivoluzione islamica
Poi, con la rivoluzione islamica del 1979, tutto è cambiato. I rapporti ufficiali si sono interrotti, ma in realtà alcune forme di collaborazione sono sopravvissute, soprattutto durante la guerra Iran-Iraq, quando entrambi avevano interesse a contrastare Saddam Hussein.
Negli anni ’90, però, la rottura è diventata definitiva: l’Iran ha iniziato a sostenere Hezbollah, ci sono stati attentati in Argentina attribuiti a Teheran, e Israele ha avviato la sua campagna contro il programma nucleare iraniano. Da lì, lo scontro è diventato permanente, con guerre per procura, attacchi informatici (il caso più famoso è quello del virus Stuxnet nel 2010, che ha bloccato le centrifughe nucleari iraniane).
L’Iran ha risposto rafforzando la sua rete di alleanze nella regione: sostiene Hezbollah in Libano, gruppi armati sciiti in Iraq e i ribelli Houthi in Yemen.
La guerra civile in Siria è diventata il punto di massima tensione. Da una parte, Israele ha bombardato ripetutamente postazioni iraniane e convogli di armi. Dall’altra, Teheran ha usato il caos siriano per consolidare la sua presenza militare.
Questo gioco di mosse e contromosse ha creato una spirale sempre più pericolosa che ha portato ai recenti avvenimenti.
Non solo: l’Iran aveva già attacco Israele lo scorso anno con due bordate, una ad aprile (dopo che Israele aveva bombardato un edificio del consolato iraniano a Damasco) e una a ottobre.
L’Iran è davvero così potente?
L’ultimo attacco iraniano che ha preceduto le operazioni israeliane è stato letto da più osservatori come una mossa annunciata, studiata più per inviare un segnale che per infliggere reali danni.
Oltre il 90% dei circa 300 vettori lanciati da Teheran è stato neutralizzato grazie alla cooperazione tra Israele, Stati Uniti e Regno Unito. Le poche testate cadute sul territorio israeliano hanno colpito infrastrutture militari senza provocare troppe vittime. Teheran ha definito la propria azione una risposta chiusa e conclusiva all’uccisione di un generale in Siria.
Dal punto di vista interno, l’Iran ha venduto l’operazione come una prova di forza, rimarcando per la prima volta l’uso diretto del proprio arsenale senza affidarsi ai proxy regionali.
Ma proprio l’assenza di conseguenze concrete rischia di restituire l’immagine opposta: quella di una potenza in difficoltà.
Non c’è nessun dubbio sul fatto che l’Iran abbia voluto dare una prova di forza (come successe lo scorso ottobre quando l’Iran sferrò degli attacchi su Tel Aviv), perché sembra che non sia in grado di fronteggiare una guerra lunga convenzionale, nonostante la resilienza interna costruita su decenni di isolamento.
Sul piano internazionale, l’attacco è servito a mantenere aperti i canali diplomatici con alcuni Paesi europei, tra cui Italia e Germania.