La lettera di messa in mora è una comunicazione formale con cui il creditore intima al debitore di adempiere a un’obbligazione non ancora eseguita. Nel momento in cui il debitore riceve questa comunicazione, egli è costituto in mora, cioè è in ritardo nell’adempimento, con tutte le conseguenze che ciò comporta in termini di responsabilità, interessi e possibile azione giudiziaria.
Per essere valida, la lettera di messa in mora deve riferirsi a un credito certo, liquido ed esigibile. Quindi, il diritto del creditore non deve essere controverso, deve essere quantificabile e deve poter essere preteso immediatamente. Ad esempio, una fattura non pagata alla scadenza, di un canone di locazione non corrisposto o di un risarcimento danni derivante da un sinistro stradale per cui è stata già accertata la responsabilità.
La messa in mora è disciplinata dall’art. 1219 c.c. e stabilisce che:
“Il debitore è costituito in mora mediante intimazione o richiesta fatta per iscritto, purché risulti chiara la volontà del creditore di ottenere l’adempimento.”
Ciò significa che non è sufficiente lamentarsi verbalmente o inviare una semplice email: serve una comunicazione scritta e inequivoca, trasmessa con modalità idonee a garantire la prova dell’avvenuta ricezione, come la raccomandata A/R o PEC. Infatti, la messa in mora ha natura recettizia: produce effetti solo nel momento in cui viene ricevuta dal destinatario.
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Quando non serve la messa in mora?
Tuttavia, il legislatore prevede dei casi in cui la costituzione in mora è automatica, senza bisogno di invio della lettera. Si parla di mora ex re, e si verifica se l’obbligazione deriva da fatto illecito, se il debitore ha dichiarato per iscritto di non voler adempiere o il termine è scaduto e la prestazione è in denaro.
Se un professionista ha emesso parcella per una consulenza, con scadenza di pagamento fissata al 30 aprile, e il cliente non ha effettuato il bonifico entro tale data, il professionista potrà – già dal 1° maggio – inviare una lettera di messa in mora per sollecitare il pagamento. Se, invece, il cliente avesse scritto un’email in cui affermava di non voler pagare, allora la messa in mora è automatica, senza bisogno di lettera alcuna.
Quali sono gli effetti legali della messa in mora?
La messa in mora comporta l’interruzione della prescrizione (art. 2943 c.c.). Ciò significa che, nel momento in cui il debitore riceve la lettera, il decorso del termine entro cui il creditore può agire in giudizio si azzera e ricomincia da capo. Si tratta di un’importante tutela: basti pensare a un credito che stava per cadere in prescrizione — una fattura commerciale dopo cinque anni — e che viene “salvato” in extremis con l’invio della messa in mora.
Un altro effetto, è la perpetuatio obligationis (art. 1221 c.c.); una volta che il debitore è stato costituito in mora, l’obbligazione si consolida a suo carico anche nel caso in cui l’adempimento divenga poi impossibile per causa a lui non imputabile. In altri termini, la messa in mora cristallizza il debito: il debitore non può più liberarsene invocando, per esempio, un evento imprevisto che avrebbe reso impossibile l’esecuzione. Ad esempio, se dopo la messa in mora un bene promesso in consegna viene danneggiato da un incendio non doloso, ma verificatosi nei suoi locali e per sua negligenza, il debitore resta comunque responsabile.
Un ulteriore effetto riguarda la responsabilità risarcitoria del debitore. L’art. 1223 c.c., stabilisce che:
“Chi non adempie a un’obbligazione dopo essere stato costituito in mora è tenuto a risarcire il danno che ne deriva, comprendendo sia la perdita economica subita (danno emergente), sia il mancato guadagno (lucro cessante).”
Inoltre, in materia di obbligazioni pecuniarie, la messa in mora comporta il diritto del creditore a percepire interessi moratori (art. 1224 c.c.), cioè gli interessi per il ritardo. Questi interessi decorrono dal momento della costituzione in mora e si sommano agli eventuali interessi legali già maturati.
Cosa può succedere dopo l’invio della lettera?
L’intimazione formale segna il passaggio da una fase di tolleranza — spesso informale — a una fase in cui il credito viene rivendicato.
Il debitore può adempiere spontaneamente all’obbligazione, pagando la somma dovuta, oppure con una proposta di pagamento rateale, una rinegoziazione dei termini o un saldo a stralcio. In tutte queste situazioni, la messa in mora ha sortito il suo effetto naturale: spingere il debitore all’adempimento e chiudere il rapporto senza bisogno di ulteriore contenzioso.
Tuttavia, non sempre le cose vanno così. In molti casi, il debitore non risponde alla messa in mora, oppure risponde con motivazioni dilatorie, negando il debito, contestandone l’entità o semplicemente ignorando la richiesta. La mancata reazione costituisce un’aggravante nella posizione del debitore. In questi casi, il passo successivo, per il creditore, è l’azione giudiziale. Quando il credito è documentato (fatture, contratti, PEC, estratti contabili), l’opzione più rapida è il ricorso per decreto ingiuntivo (art. 633 c.p.c.). Se il giudice lo ritiene fondato, emette un decreto esecutivo che può trasformarsi in un pignoramento su beni mobili, immobili, stipendio o conti correnti.
Esistono però anche soluzioni alternative, per evitare un contenzioso. Tra queste, una delle più praticate è l’accordo transattivo e la mediazione obbligatoria in alcune materie (condominio, locazioni etc.): il creditore accetta di ridurre l’importo dovuto in cambio di un pagamento immediato e certo.
Differenza tra messa in mora e diffida ad adempiere
La messa in mora serve ad avvisare formalmente il debitore che, se non adempie all’obbligazione, il creditore potrà agire giudizialmente per ottenere il soddisfacimento del proprio diritto. Non ha effetti risolutivi sul contratto, né mira a farlo cessare. Il suo obiettivo è quello di ottenere l’adempimento, di solito il pagamento di una somma di denaro.
Invece, la diffida ad adempiere (art. 1454 c.c.), invece, ha una funzione risolutiva: è l’atto con cui una parte di un contratto avverte formalmente l’altra che, in caso di inadempimento entro un termine preciso (non inferiore a 15 giorni), il contratto si intenderà risolto di diritto. Questo istituto può essere utilizzato solo nei contratti a prestazioni corrispettive (come vendita, appalto, locazione), quando il ritardo nell’adempimento non è di scarsa importanza.
Per rendere più chiaro il confronto:
Caratteristica | Messa in mora | Diffida ad adempiere |
---|---|---|
Finalità | costituire il debitore in mora | risolvere il contratto se non c’è adempimento |
Effetto | interruzione prescrizione, interessi, responsabilità | risoluzione automatica del contratto |
Ambito di applicazione | obbligazioni in generale (anche extracontrattuali) | contratti a prestazioni corrispettive |
Termine previsto | non è stabilito per legge (ma ragionevole) | almeno 15 giorni (per legge) |
Presupposto | inadempimento | inadempimento non lieve e interesse alla risoluzione |
Quando conviene usare l’una o l’altra? Dipende dall’obiettivo del creditore. Se l’intenzione è recuperare il pagamento o sollecitare l’adempimento senza sciogliere il contratto, è opportuno inviare una messa in mora. Questo è il caso, ad esempio, di un architetto che sollecita il compenso per una prestazione professionale, pur desiderando mantenere un buon rapporto con il cliente.
Se invece il creditore non è più interessato a ricevere la prestazione e desidera risolvere il contratto per poter riorganizzare diversamente la propria attività, allora è corretto utilizzare la diffida ad adempiere. Si pensi, a un imprenditore che ha commissionato una fornitura per un evento a data fissa: se il fornitore non consegna nei tempi, la risoluzione del contratto diventa essenziale.